Immaginando Sabbiuno

Dicembre 1944.
Ero nascosto in casa mia.
Abitavo in una casina di campagna vicino a San Giovanni in Persiceto, sulle rive di un torrente che mi garantiva acqua tutto l'anno. Prima della guerra avevo un piccolo orticello, qualche gallina, qualche coniglio, due capre, che mi davano il latte per le mie cene con il Pan bagnato e tre Capponi, che con fortuna riuscivo a vendere in qualche mercato cittadino.
Ero povero ma felice. Avevo una morosa giovane e bella. Non avevo i soldi per sposarla, ma un pó era come se lo fossimo. Il padre le aveva dato il permesso di venirmi ad aiutare nelle faccende di casa, prima che facesse buio. Il padre non sapeva che io ero molto bravo a faccendare, perchè mia madre, morta quando ero ancora adolescente, mi aveva insegnato tutto. Dal pulire per terra, a lavare i panni, stenderli e stirarli. Mi aveva insegnato come mio padre allevava le bestie, prima che andasse a lavorare alla costruzione di una ferrovia che collegasse Bologna a Pistoia. Prima che andasse a morire lungo quella ferrovia. La mia casa era anche piccolina, non ci voleva molto a tenerla pulita. Era piccola la casa, ma avevo un letto molto grande, a baldacchino, di quelli di una volta, ereditato dai miei da una zia. Valeva più il letto che la casa. Lo facevamo valere io e la mia morosa. Ci amavamo troppo per resistere alle tentazioni. Eravamo giovani ed avevamo fame. Ci sfamavamo a letto. Appena iniziata la guerra, la sua famiglia decise di scappare all'estero, da un parente lontano. Di lei non ebbi più notizia. 

Io rimasi nella mia terra. Non avevo piú niente. Gli animali li avevano portati via e anche i prodotti dell'orto non facevano in tempo a crescere. Tedeschi, fascisti e Partigiani, di passaggio, me li sottraevano, chi in modo crudele e senza scrupoli, chi disperato, quanto lo ero io, ma con le ferite della guerra sul corpo e soprattutto nell'anima. La mia casa sembrava disabitata, rimanevo rintanato al'interno come un topo nella sua tana e quando sentivo gente avvicinarsi mi nascondevo in una botola che avevo costruito sotto la stufa. Una notte arrivó un furgone di tedeschi, entrarono e distrussero il poco che potevano distruggere. Spostarono tutti i mobili, anche la stufa e mi trovarono. Mi presero per i pochi capelli che avevo e mi riempirono di botte, facendomi cadere i quattro denti su nove che possedevo. Mi caricarono sul furgone giá stipato di prigionieri. Erano miei compaesani, qualcuno pensavo fosse giá morto, dal loro sguardo capii che credevano la stessa cosa di me. Il furgone partì, mi voltai verso casa e la vidi in fiamme. Puntai lo sguardo alla finestra della camera, il letto a baldacchino era avvolto dalle fiamme e il metallo si stava fondendo accartocciandosi su se stesso. Insieme al baldacchino, anche il mio cuore si stava definitivamente accartocciando. Era la fine del mio amore era la fine di tutto. Ero rimasto a casa sperando, un giorno, di vederla tornare, non sapevo dove mi stessero portando, ma sapevo che mai più sarebbe tornata. Ne lei, ne la mia casa, ne io.

Ci portarono in centro a Bologna, c'ero stato un paio di volte con il carretto e la verdura. Troppo lontana per le mie forze, non ero più tornato. Rinchiusi, ammassatti, in delle celle ci interrogarono uno ad uno. Interrogatorio particolare, facevano le domande e ci davano le risposte. Ci accusavano di aver soccorso, aiutato, ospitato e nutrito i partigiani. In parte era vero. Io qualcuno l'avevo aiutato, ma avevo aiutato anche tanti fascisti e pure un tedesco. Una sera arrivò davanti a casa, stranamente solo e si coricò piangendo appoggiato alla porta d'ingresso. Stavo riposando al centro della stanza, lontano dalle finestre per evitare gli spifferi, che facevano entrare aria gelida che penetrava nelle ossa. Lo sentii singhiozzare e aprii. Lui si alzò di scatto sorpreso e mi punto la pistola in fronte. Alzai le mani e lo feci entrare. Tremava come una foglia, nonostante fosse ben vestito. Accessi il camino con l'ultima legna che possedevo e ci mangiammo un formaggio duro come il marmo. Parlammo a lungo, lui in tedesco, io in Italiano, che poi era dialetto, un pó Bolognese, un pò Modenese con qualche accento ferrarese in particolari parole. Ci capimmo ugualmente. Era stanco, stanco di urlare, stanco di ubbidire, di picchiare, sparare, uccidere. Voleva tornare a casa, sapeva che la fine si stava avvicinando ma più si avvicinava più vedeva lontana casa sua. Poco prima dell'alba si alzò, gli aprii la porta e ci scambiammo uno sguardo intenso, quasi fraterno. Lo vidi sparire nella notte che stava finendo e non lo vidi più. 

Mi riapparve mentre mi interrogavano. Era dietro al Generale che mi faceva le domande. Incrociammo lo sguardo qualche secondo, poi il suo si perse nel vuoto. Fu lui a prendermi e a portarmi lungo i colli, insieme a molti altri prigionieri. Ci portarono su un calanco e ci misero in fila, uno fianco all'altro, sul bordo del burrone. Eravamo più di 100. Dietro ad ognuno di noi un tedesco ci puntava un fucile alla schiena. Dietro di me c'era lui, non lo vedevo ma lo sentivo, tremava come quella notte, anche se non lo faceva trasparire. Il Generale dietro di loro cominciò ad impartire l'ordine. Guardai in basso, snevischiava, la valle era bianca tagliata dal fiume che l'attraversava. Rivolsi lo sguardo verso il cielo e chiusi gli occhi. Mi apparve lei bella e sorridente, sorrisi anche io e poco prima che il Generale finisse l'ordine mi buttai. Mentre volavo verso il basso, poco prima di schiantarmi sulle rocce, sentii i fucili cantare. Il mio però, ne sono sicuro, non cantò. 

Ora riposo qua, tra qualche roccia dei colli Bolognesi, una croce bianca alla fine del calanco, a ricordare me e chi come me, senza nome, è stato vittima di questa guerra, non solo in morte, ma anche in vita. 

 

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